M. ha cambiato classe. O meglio, stanza. Lunedì sera era talmente triste, annoiata e arrabbiata da lanciare un segnale di fumo. È andata a dormire prima delle dieci e senza guardare la tivù.
Abbiamo colto.
E così, in pigiama, è partito il pippone sul trovare un senso in ogni tempo, sul non crogiolarsi nell’autocommiserazione, sul cercare soluzioni al posto di nuove lamentele.
Martedì mattina sembrava pronta per un viaggio. Vado in mansarda, ha detto. Chitarra cartellina da disegno computer libri diario post-it.
È fatta, ho pensato.
Oggi è toccato a G. Prima ora, inglese. Listen and draw. Non è tanto facile se l’audio rimbomba. E lui non ha capito cosa significhi draw. È orgoglioso, non chiederebbe mai un aiuto al di fuori della maestra. Passo di lato, chiedo se va tutto bene. «Sì, ma mi dai fastidio se mi parli durante la lezione». Arriva l’intervallo, le lacrime sono lì lì per scendere. Butto l’occhio sulla pagina del libro. «Certo che dovete disegnare in fretta in questo esercizio!». «Disegnare?», ripete, il volto finalmente rilassato.
È fatta, penso. Fino alla prossima crisi…